-DI ANGELO PISANI -
Non è una presa di posizione ideologica.
Non è una battaglia di parte.
È, prima di tutto, una riflessione sul funzionamento della giustizia e sulla credibilità del processo.
Mi sento spinto a intervenire nel dibattito sul referendum per la separazione delle carriere con una convinzione chiara: voterò SÌ, in modo fermo e ragionato.
Lo faccio da avvocato, non da militante politico. E lo faccio proprio perché non mi riconosco nelle semplificazioni che riducono questo tema a uno scontro tra schieramenti.
La separazione delle carriere va letta per ciò che è realmente: una questione di garanzie, di tutela del diritto di difesa e di trasparenza del sistema giudiziario.
Chiunque frequenti quotidianamente le aule di giustizia conosce bene una dinamica che raramente viene raccontata fuori dai palazzi: giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine, condividono percorsi professionali, ambienti di lavoro, logiche ordinamentali. Sono colleghi. Ed è naturale che lo siano.
Ma è altrettanto naturale domandarsi se questo assetto sia ancora compatibile con l’esigenza – oggi più che mai avvertita – di una giustizia che non solo sia imparziale, ma che appaia tale.
Nel processo penale, il pubblico ministero esercita l’azione penale.
Il giudice decide della libertà, dei diritti, talvolta del destino delle persone.
È legittimo chiedersi se questi due ruoli possano continuare a convivere all’interno dello stesso percorso professionale senza generare, anche solo potenzialmente, interferenze, condizionamenti, cortocircuiti istituzionali.
Non si tratta di mettere in discussione la buona fede o la professionalità dei magistrati. Si tratta di riconoscere che le relazioni ordinamentali, le carriere, le prospettive di nomina e di avanzamento fanno parte di un sistema che inevitabilmente incide sul clima in cui si forma il giudizio. Tutto questo ha un riflesso concreto: sull’attività dell’avvocatura, sul diritto di difesa, sulla percezione di equità da parte dei cittadini. Un sistema nel quale accusa e giudice condividono lo stesso orizzonte professionale rischia di rendere opache dinamiche che dovrebbero essere cristalline.
La separazione delle carriere non indebolisce la magistratura.
Al contrario, ne rafforza l’autorevolezza, sottraendo ogni sospetto di contiguità e restituendo piena centralità al principio del giusto processo.
Per questo il referendum non dovrebbe dividere in base alle appartenenze politiche.
Il SÌ non è di destra né di sinistra.
È una scelta a tutela dei diritti fondamentali, dell’equilibrio tra le parti, della credibilità della giurisdizione.
Il NO, invece, finisce per difendere uno status quo che da tempo mostra limiti evidenti e che, nei fatti, continua a comprimere il diritto di difesa e la fiducia dei cittadini nella giustizia.
Rivolgo quindi un appello agli avvocati, ai cittadini e anche ai magistrati che credono davvero nella neutralità del giudicare: votare SÌ significa rafforzare lo Stato di diritto, non indebolirlo.
È una scelta di trasparenza.
È una scelta di civiltà giuridica.
Mettiamo da parte, una volta per tutte, le appartenenze politiche.
Mettiamo da parte le tifoserie.
Guardiamo la questione dal punto di vista dell’avvocatura e di chi, ogni giorno, è costretto a rivolgersi a noi: i cittadini, i nostri clienti.
Entriamo idealmente in un’aula penale.
Il giudice si rivolge al pubblico ministero con modi cordiali. È normale: sono colleghi.
Quando il giudice si ritira in camera di consiglio, il PM va via. Torna nel suo ufficio, al bar, altrove.
Poi, avvisato dal cancelliere, rientra pochi istanti prima della decisione.
Fuori dall’aula, nella quotidianità lavorativa, giudice e PM condividono ambienti, percorsi, dinamiche.
Possono parlare delle future nomine, delle elezioni per il CSM, di carriere, incarichi, rivendicazioni lavorative.
Possono commentare procedimenti che riguardano altri colleghi.
Possono – anche inconsapevolmente – condizionarsi.
E il giorno dopo, uno rappresenta l’accusa.
L’altro decide sulla libertà personale di un cittadino.
Ecco il punto. Il vero punto.
Chi promuove l’azione penale e chi decide del destino delle persone non devono essere colleghi. Non devono condividere carriere, percorsi, interessi ordinamentali. Non devono trovarsi, anche solo indirettamente, dentro le stesse logiche di appartenenza. Perché tutto questo si ripercuote in aula.
Si ripercuote nel modo di giudicare.
Si ripercuote sul diritto di difesa.
Si ripercuote sui nostri clienti.
E si ripercuote sul nostro lavoro quotidiano di avvocati, spesso mortificato da dinamiche invisibili, non controllabili, non conoscibili.
Questa non è una battaglia contro la magistratura.
È una battaglia per la magistratura, affinché sia – e appaia – davvero imparziale.
È una battaglia per la trasparenza del processo.
È una battaglia per la credibilità della giustizia.
Mettiamo da parte il linguaggio ideologico.
Mettiamo da parte il “destra contro sinistra”.
Il SÌ è per la tutela dei diritti.
Il NO è per il mantenimento di un sistema che, oggettivamente, indebolisce il diritto di difesa.
Per questo rivolgo un appello:
• agli avvocati, custodi della difesa e della libertà;
• ai cittadini, che chiedono una giustizia giusta, non sospetta;
• ai magistrati, che sanno quanto sia importante non solo essere imparziali, ma anche apparirlo.
Votare SÌ non significa schierarsi.
Significa scegliere una giustizia più credibile, più equa, più moderna.
AVVOCATO ANGELO PISANI

